I Vitigni resistenti o PIWI | Approfondimento
Qualunque coltura agraria, quindi anche il vigneto, necessita di un certo numero di trattamenti con prodotti fitosanitari per poter fornire produzioni remunerative per l’agricoltore e ottimali, dal punto di vista qualitativo, per il consumatore.
Negli ultimi trent’anni molti passi sono stati fatti per ridurre il numero dei trattamenti, per ottimizzarli e per ridurne l’impatto ambientale attraverso l’eliminazione delle molecole attive più dannose per l’uomo e per l’ambiente (sostenibilità ambientale). Si ricorda che dal 1991 l’UE dispone di norme comuni in materia di autorizzazione e utilizzo dei fitosanitari; in precedenza gli Stati membri avevano leggi proprie. Nel 2009 l’Unione europea emana la “Direttiva 128/09/CE”, direttiva sull’uso sostenibile dei fitofarmaci per un utilizzo che riduca i rischi ed effetti sulla salute umana nonché per la tutela dell’ambiente. Viene promossa anche la difesa integrata, forma di difesa che si basa sulla prevenzione delle infestazioni da organismi nocivi e si avvale di pratiche agricole sostenibili e delle soglie di intervento per i diversi patogeni, monitoraggi e metodi di controllo anche non chimici.
Infine, nel 2020 ecco la nuova politica alimentare della UE, “Farm to Fork (F2F)”, con l’obiettivo di ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030 e di aumentare la superficie condotta con metodi biologici fino ad un 25% del totale.
Vitigni resistenti: alternativa alla difesa integrata?
Per arrivare alla massima sostenibilità dell’agricoltura e per rispettare la scadenza del 2030 si può, però, seguire anche un altro approccio oltre alla difesa integrata: è quello che valuta l’utilizzo di colture resistenti a diverse fitopatie: in questo modo si azzerano, anche se non del tutto, i trattamenti chimici. Per la viticoltura si parla di “vitigni resistenti”. Un vitigno resistente è un vitigno che si origina da incroci successivi tra Vitis vinifera e altri individui selvatici americani o asiatici del genere Vitis. L’individuo, ibrido interspecifico, ormai di settima o ottava generazione, che nasce da questo lavoro di selezione si caratterizza per l’appartenenza genetica al 90%- 95% a Vitis vinifera e per una presenza di geni che garantiscono la resistenza a uno o più patogeni (oidio e peronospora) derivanti dal “sangue” della Vitis selvatica. Non sono organismi OGM perché nascono da incroci tra specie diverse, affini, incroci che avverrebbero naturalmente e che vengono semplicemente “accelerati” dall’uomo. La loro coltivazione permette di effettuare anche solo 2-3 trattamenti antioidici e antiperonosporici all’anno con produzioni qualitativamente e quantitativamente buone.
I vitigni resistenti sono noti, anche in Italia, con la sigla PIWI che sta per “Pilzwiderstandsfähige Rebsorte” letteralmente, in tedesco, resistente ai funghi, in quanto è stata l’università di Freiburg il primo e principale polo di ricerca in questo settore. In Europa sono diversi i costitutori di PIWI: in Italia il costitutore è l’Istituto di Genomica Applicata Udine (IGA). Le varietà incrociate ad oggi sono principalmente il Tocai friulano, il Sauvignon blanc, il Sangiovese, il Cabernet Sauvignon, il Merlot. Mancano lavori di ibridazione, al momento, sulle varietà non internazionali.
La diffusione e la normativa relative ai PIWI in Italia
Piuttosto complessa ad oggi la legislazione in merito alla loro coltivazione: sono tutte varietà registrate sul Catalogo nazionale delle varietà di vite, e ogni Regione può autorizzarne o meno la coltivazione. In Italia nel 2021 si contavano all’incirca 1.000 ha coltivati a PIWI, concentrati nelle Regioni che per prime ne hanno autorizzato l’impianto: Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Alto Adige, Trentino e Lombardia. Emilia-Romagna, Marche e Abruzzo sono le ultime Regioni che ne hanno di recente ammesso la coltivazione.
Ogni Regione, che ne ha concesso la coltivazione, ha un proprio elenco di PIWI ammesse, così come per le varietà di Vitis vinifera autorizzate e raccomandate. In Italia, ad oggi, le PIWI non possono rientrare in nessuna DOC o DOCG nazionale (“Uve non utilizzabili per i vini a denominazione di origine ex art. 6. D.Lgs 61/2010”) mentre, a livello europeo, la Germania, per esempio, ammette i PIWI nei DOC.
PIWI per la viticoltura del futuro?
Il Regolamento (UE) 2021/2117 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2021 al punto 28 dice “Per consentire ai produttori di utilizzare varietà di viti che si adattino meglio ai cambiamenti delle condizioni climatiche e che abbiano una maggiore resistenza alle malattie, è opportuno prevedere disposizioni che permettano l’utilizzo di denominazioni d’origine per prodotti dalle varietà di viti appartenenti alla specie Vitis vinifera e da varietà di viti ottenute da un incrocio tra Vitis vinifera e altre specie del genere Vitis”. Questo importante punto, invita quindi i diversi Stati a valutarne l’interesse.
Nell’ultimo anno si sono tenuti diversi Convegni che hanno trattato l’argomento PIWI e, parallelamente, anche diverse degustazioni guidate dei vini provenienti dalle vinificazioni in purezza delle uve PIWI sono state fatte nei diversi territori vitati per far conoscere e apprezzare le particolari caratteristiche di queste varietà.
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